EUTANASIA PRENATALE: IL FETO TERMINALE.

Prof. Giuseppe Noia

Con l’introduzione dell’ecografia ostetrica si è aperta una finestra sul mondo fetale, mostrandoci numerosi aspetti della vita prenatale prima inimmaginabili. Ciò ha permesso l’evoluzione della scienza ostetrica e attualmente con le terapie fetali è oggi possibile curare numerose patologie prenatali.

D’altro canto, tutto ciò che ha permesso di monitorare il benessere fetale, ha consentito altresì di attuare procedure che non tendevano a migliorare le condizioni di salute del feto, ma piuttosto ad eliminarlo fisicamente (Garver et al 1992)

Oggi si assiste a numerosi interventi medici che tendono in qualche modo a diffondere ciò che giustamente viene definita “eutanasia prenatale”. (Giovanni Paolo II 1995)

Con questo termine intendiamo riferirci a un diffuso modello culturale e comportamentale, soprattutto nella classe medica, che rende, quasi eticamente accettabile, una morte programmata di un “feto terminale” (e per “feto terminale” s’intende una condizione sul piano anatomico-strutturale o sul piano genico-cromosomico incompatibile con la vita) .

In genere, si tratta di condizioni che per un background genetico, o per alterazioni congenite, o per interventi a varia eziologia che intervengono nella fase prenatale, definiscono una storia naturale e un’evoluzione del feto in oggetto con prognosi sicuramente negativa (ed un exitus pre-natale o subito dopo la nascita ) .

Nell’ambito di queste condizioni di “feto terminale*”, possiamo distinguere tre categorie:

in un primo gruppo possiamo includere quei feti definiti “terminali”, ma che vengono considerati tali solo sulla base di una mancata conoscenza scientifica della “reale” storia naturale che ha causato il quadro malformativo in oggetto. In tal caso, il feto non è intrinsecamente terminale, ma è reso tale da una forma di “accidia intellettuale”, una pigrizia mentale che impedisce a molti ricercatori ed operatori nel campo socio-sanitario di informare correttamente la coppia, riferendo dati con metodologie non rigorose ed aggiornate. Tutto ciò però produce un grave processo di amplificazione del rischio nel vissuto psicologico della coppia, che a sua volta, aumenta lo stato confusionale e l’ansia. Dall’ansia, si arriva molto spesso al rifiuto di un bambino considerato terminale, che nella maggior parte dei casi è assolutamente sano o presenta una condizione malformativa di lieve entità o curabile in fase pre o peri natale.

Una esemplificazione può essere data dalle malattie infettive in gravidanza, dove la mancata conoscenza della trasmissione verticale al feto, del timing gestazionale in cui questo possa essere avvenuto, e dalla non rigorosa valutazione dei follow-up a distanza, permette delle consulenze sul rischio teratologico che rendono “terminali” molti feti assolutamente sani.

Su 284 casi di donne affette da Rosolia e giunte presso il nostro Centro abbiamo registrato 36 (13%) casi di reinfezioni,35 (12%) casi di portatrici croniche di IgM e 64(23%) casi di non avvenuta infezione: condizioni, queste, in cui il rischio di trasmissione verticale al feto è praticamente nullo! Inoltre nei 149 casi di infezione primaria (restanti dei 284) in circa la metà dei casi questa era stata contratta nel tra il II e III trimestre. ( Tabella 1 ), quando, come si sa, il rischio di infezione rubeolica è praticamente inesistente ( in particolare dopo la 16 settimana).

Tabella 1- 284 casi di Rosolia in gravidanza da Gennaio 1984 a Dicembre 2002

TOT

 

%

 

PERIC

 

I TRIM

II TRIM

III TRIM

INFEZIONE PRIMARIA

149

52

16

59

 

69

 

5

REINFEZIONE

 

36

 

13

3

 

23

 

9

 

1

IG M CHRONIC CARRIER

 

35

12

 

21

14

 

NO INFEZIONE

64

23

Altra condizione che merita di essere citata come esemplificazione di quanto importante sia la metodologia del counselling, la conoscenza della storia naturale, il follow up a lungo termine, è la ventricolomegalia isolata.

In un’indagine condotta dal nostro Centro di Diagnosi Prenatale su 251 casi studiati dal 1980 al 2003 in termini di diagnosi prenatale, assistenza prenatale, parto, chirurgia post-natale e su cui è stato effettuato un follow-up a lungo termine (da 1 a 15 anni con una media di 9 anni) ha evidenziato che, nelle forme lievi, la ventricolomegalia ha una risoluzione spontanea pre- post natale nel 43% dei casi e uno sviluppo psico-motorio normale nell’82% dei casi delle forme lievi e nel 58% dei casi di forme gravi. ( Tabella 2 ).

Tabella 2- Ventricolomegalia: follow up in 176 bambini su 225 viventi (100 lieve- 76 grave)

LIEVE GRAVE

NUMERO

%

NUMERO

%

SVILUPPO NORMALE

82

82

44

57,9

LIEVE RITARDO PSICOMOTORIO

3

3

8

10,5

MEDIO RITARDO PSICOMOTORIO

5

5

10

13,1

DEFICIT VISIVO ISOLATO

0

2

2,7

GRAVE RITARDO PSICOMOTORIO

10

10

12

15,8

PERSI AL FOLLOW UP

21

28

Se non avessimo avuto la possibilità di seguire longitudinalmente queste condizioni malformative con una metodologia di validazione pre e post natale a lunga distanza, non avremmo potuto riportare questi dati, con la sicurezza che deriva, non solo dal numero elevato delle pazienti osservate, ma soprattutto dall’impatto positivo che le famiglie hanno riferito in relazione alle cure e all’evoluzione delle patologie. Sono queste famiglie, sono queste donne che ci hanno permesso di riscrivere la storia naturale della ventricolomegalia isolata.

Un’altra esemplificazione può essere riportata in merito alla diagnostica ecografica del sospetto feto cromosomopatico. I markes ecografici di cromosomopatia sono oggi oggetto di numerosi studi da parte del mondo scientifico.

L’obiettivo sarebbe il riconoscimento dei feti portatori di cromosomopatia al fine di ridurre l’utilizzo di procedure invasive come l’amniocentesi. Nel sociale, però, cio’ si è tradotto in un aumento della componente ansiogena materna al controllo ecografico senza un reale riscontro clinico e all’aumento del ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza prima di una oggettiva precisazione diagnostica.

In uno studio condotto presso il day hospital ostetrico su 55 pazienti con markers di cromosomopatia ( 50% con aumento della translucenza nucale ,30% con igromi cistici, 20% con idrope), 11 (20%) donne hanno effettuato IVG in un’altra sede senza ulteriore precisazione diagnostica, assolutizzando il valore diagnostico dell’ecografia e soprattutto la frettolosa consulenza del primo ecografista contattato. Il 16% (9 pazienti) è andato incontro ad un aborto spontaneo.

Nelle 22 pazienti (40%), che hanno raccolto il nostro invito a fare una precisazione diagnostica mediante procedura invasiva (amniocentesi), l’analisi del cariotipo su liquido amniotico è risultato NORMALE!

D’altra parte in 13 pazienti (24%) l’analisi della mappa cromosomica risultava alterata. ( Tabella 3 ).

Tabella 3-Markers ecografici di cromosomopatia

GRUPPO

 

PAZIENTI

ESITO

 

%

 

TOT

 

PRIMO

13

22

9

CARIOTIPO ALTERATO

CARIOTIPO NORMALE

ABORTI SPONTANEI

 

24

40

16

 

 

56 %

 

SECONDO

 

11

IVG IN ALTRA SEDE

 

20

 

73%

 

TOTALE

55

 

La conclusione che si può trarre da questo studio è che, pur in presenza di segni ecografici di sospetta cromosomopatia, la precisazione diagnostica con procedura invasiva è fondamentale e, come si vede dai numeri, diventa un deterrente di un aborto volontario eugenetico.

Una seconda riflessione riguarda il tipo di informazione superficiale che viene dato dinanzi alla prima osservazione di questa semeiotica. Il fatto che 11 pazienti (20%) abbiano scelto di effettuare l’IVG, rifiutando la precisazione diagnostica invasiva, esprime chiaramente la preponderanza della prima consulenza rispetto alla seconda effettuata nel nostro centro. Rileggendo la storia naturale di questi dati, però, ci si accorge che 5 bambini su 11 erano sicuramente normali.

Inoltre considerando il tasso di abortività spontanea (16%) di quelle pazienti che avevano accettato la precisazione diagnostica (aspettavano di sottoporsi ad amniocentesi) se ne deduce che una donna su 6 avrebbe potuto evitare il peso di una decisione così devastante sul piano umano e psicologico.

Infine si conclude che il 40% dei feti considerati terminali sul piano cromosomico erano perfettamente normali avendo effettuato anche un controllo ecocardiografico tra 22 e 25 settimane.

Un secondo gruppo comprende quei feti considerati terminali sulla base di una storia naturale che per la loro intrinseca patologia porta ad un exitus sicuro prenatale o perinatale se non si interviene con procedure di terapia fetale invasiva o non invasiva. In questo secondo gruppo possiamo includere le gravi anemie fetali da iso-immunizzazione Rh, le idropi fetali non immuni, le uropatie ostruttive gravi con megavescica, le rotture intempestive delle membrane del II° trimestre, i difetti del tubo neurale come la spina bifida, le emoglobinopatie e le forme di tachiaritmia fetale gravi, passibili di cardioversione con farmaci antiaritmici anche attraverso la somministrazione materna -transplacentare .

Le terapie fetali invasive hanno cambiato la storia naturale di numerose patologie (Noia et al 1998). La nostra esperienza è stata condotta presso il Day Hospital di Ostetricia dell’Istituto per la Tutela della Donna e della Vita Nascente.

L’ospedalizzazione breve che si concretizza nell’attività del Day Hospital si configura come entità fondamentale nell’organizzazione dei servizi del Dipartimento per la Tutela della Donna e della Vita Nascente; esso si realizza attraverso una concentrazione o concatenazione cronologica di eventi assistenziali complessi (diagnostici e terapeutici) non realizzabili in forma integrata in un contesto ambulatoriale, ma effettuabili in ospedale in accessi isolati o in un ciclo di accessi senza necessitare di permanenza notturna della paziente.

Dopo vent’anni di attività clinica e di ricerca da noi effettuata presso il nostro centro possiamo affermare che l’utilizzo di un approccio integrato per la cura di patologie fetali ha portato ad un notevole aumento della sopravvivenza (Noia et al 1999). E’ importante sottolineare che questi risultati sono in parte dovuti al coraggio delle numerose coppie che hanno scelto di sottoporsi a procedure un tempo ancora sperimentali invece di ricorrere all’interruzione di gravidanza.

Con l’utilizzo negli anni di un approccio intravascolare, come le trasfusioni intra-utero per la cura delle Isoimmunizzazione Rh e delle piastrinopenie, si e’ registrato un aumento degli indici di sopravvivenza dal 40% al 92%.( Tabella 4 )

 

Tabella 4- Terapie fetali invasive e trend degli indici di sopravvivenza

APPROCCI

PATOLOGIE

SOPRAVVIVENZA

INTRA-VASCOLARE

ISOIMMUNIZZAZIONI RH

PIASTRINOPENIE

40% VS 92%
 

INTRA-AMNIOTICO

 

pPROM II TRIMESTRE

POLIAMNIOS

GOZZO FETALE

0 VS 40-60%

 

CAVITA’ INTRA-SIEROSE

N.I.F.H.

T.T.T.S.

 

12% VS 42%

TRATTO INTRA-URINARIO

 

UROPATIE OSTRUTTIVE

 

22% VS 63%

 

 

L’utilizzo dell’approccio intra-amniotico, con le amnio-infusioni per la cura delle p-Prom nel II trimestre, le amnio-riduzioni per il poliamnios e l’inoculo in cavità amniotica di farmaci per la terapia del gozzo fetale ha consentito una sopravvivenza del 40-60% di questi feti. ( Tabella 4 ) (De Santis 2003 e De Santis et al 2004)

Tecniche come la paracentesi e la toracentesi hanno consentito la sopravvivenza di feti affetti da idrope non immune e di gemelli affetti da Sindrome di Transfusione feto – fetale con un range del 42%. Anche per i feti affetti da patologie ostruttive del tratto urinario hanno un indice di sopravvivenza del 63% con l’applicazione delle vescicocentesi. ( Tabella 4 )

Il nostro centro di diagnosi prenatale vanta l’utilizzo di queste tecniche invasive con un rischio di aborto e di perdita fetale comunque accettabile e piu’ basso di quello riportato in letteratura (dello 0.5% vs 1% per le amniocentesi e dello 0.6% vs 2% per le cordocentesi e trasfusioni intra-utero).

( Tabella 4 )

Recentemente, una condizione malformativa linfatica come l’igroma cistico, gravato, tra l’altro, anche da un’alta incidenza di cromosomopatie, è stato trattato con una iniezione intralesionale di OK- 432 ( un concentrato liofilizzato sclerosante) che ha obliterato la comunicazione linfatica patologica, permettendo la nascita di un feto maschio sano di 3100gr alla 37 settimana. Si ripete il concetto, già espresso, che “l’accidia intellettuale” si arrende dinanzi ad alcune condizioni fetali considerate inguaribili, mentre una cauta ricerca di possibili terapie, eticamente guidata, cambia la storia naturale di molte patologie fetali, affrontate con un discernimento scientifico accurato e con una proporzionalità adeguata al rischio beneficio.

Poi, per quanto riguarda le emoglobinopatie, la nostra esperienza riguardo la terapia è ancora sul piano sperimentale animale. Attualmente, specialmente nelle aree endemiche per la talassemia, vi è un alto tasso di interruzioni di gravidanza dopo diagnosi precoce e, qualora non venga intrapresa questa strada, la prognosi di questi bambini è gravata da una qualità di vita non buona per le frequenti trasfusioni da effettuare e le complicanze a questo associate. Il nostro scopo sarebbe quello di effettuare un trapianto prenatale di cellule staminali ematopoietiche il più precoce possibile in modo da garantire l’attecchimento ed alti tassi di chimerismo post-natali. L’iniezione di cellule staminali cordonali umane trattate nella cavità celomatica del feto ovino sembra dare buoni risultati e la speranza sarebbe quella di una riproducibilità di applicazione clinica nella specie umana ( Noia et al 2003 e Noia et al 2004).

Il terzo gruppo è rappresentato da condizioni di feti incompatibili con la vita, non viabili (cromosomiche e strutturali) come le triploidie, le trisomie 13 e 18, le forme di nanismo tanatoforo, le agenesie renali bilaterali, le anencefalie e le displasie renali bilaterali precoci.

In questo gruppo possiamo includere una serie di condizioni malformative “proiettate” alla loro “inevitabile terminalità”.

La caratteristica di queste condizioni è la conflittualità oggettiva di una medicina prenatale che non avendo la “speranza” della vita di questi feti, conclude “frettolosamente” di “non poter far nulla” e confermando che l’arte medica è ormai irrimediabilmente legata solo ad un sapere tecnico e neutro, senza scavare con gli occhi del cuore e dell’intelletto il profondo universo del soffrire e dell’umanità sofferente.

Questa scienza non “condivide” e quindi non vede al di là del fatto tecnico: non “condivide e non vede livelli di interventi sulla coppia, sulle famiglie, sulle persone che aprono strade nuove con ripercussioni cliniche e scientifiche inimmaginabili.

Chi penserebbe che esistano persone che, pur sapendo che il proprio feto non sopravviverà, scelgono di proseguire la gravidanza sino alla loro fine naturale?

Noi riportiamo qui una serie di fatti esperienziali di madri, coppie, famiglie, che hanno fatto questo percorso con una motivazione fondamentale: al di là di qualsiasi connotazione ecografica, clinica o malformativa, il loro feto era ed è il loro “figlio”. Nessuna realtà al mondo può togliere al bambino questo titolo: essere “figlio”, essere “IL FIGLIO”.

Una condizione irrimediabilmente considerata terminale è quella di feti di madri che vanno incontro ad un coma reversibile con tutte le implicazioni biologiche, cliniche e psicologiche che questa situazione comporta. Due casi di coma reversibile (uno da encefalite erpetica e un altro da trombosi dell’arteria basilare, rispettivamente della durata di 30 e 35 giorni, verificatisi nel I trimestre di gravidanza ed esitati in emiplegia completa dell’emisoma destro), hanno richiesto una nostra valutazione globale in relazione al rischio embriofetale da farmaci, da radiazioni e, nel caso di encefalite erpetica, da virus. Tutti i dati di letteratura più recenti sono stati integrati in una relazione analitica consegnata alle famiglie e spiegata con dovizia di particolari alla coppia. La scelta è stata quella di proseguire la gravidanza e l’esito finale ha confermato pienamente il rigore metodologico della informazione. Due bambini, di peso adeguato, assolutamente normali per tutte le variabili neonatali, sono nati a termine, uno dei quali (trombosi materna), per via vaginale.

Una diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è stata fatta ad una giovane donna giapponese alla 14 settimana di gravidanza, pervenuta casualmente al pronto soccorso per alcuni disturbi neurologici. La madre della paziente era deceduta di SLA all’età di 40 anni. Il “pushing” familiare e del contesto sociale in cui la paziente viveva spingeva in maniera molto forte all’interruzione di gravidanza, ma la risposta consapevole della coppia alla prosecuzione della gravidanza ha smontato la principale obiezione che veniva continuamente posta: l’interruzione di gravidanza non avrebbe modificato né in qualità, né temporalmente l’evoluzione galoppante della malattia e la prognosi materna. La paziente è pervenuta al mio ambulatorio professionale alla 16 settimana con un deambulazione ancora efficiente; alla 18 settimana è stata portata su sedia a rotelle; alla 20 settimana le è stata innestata la terapia parenterale per la graduale paresi della muscolatura dell’apparato digerente (deglutizione e progressione del bolo alimentare); alla 22 settimana la iniziale paresi della muscolatura respiratoria ha reso necessario una tracheostomia per la ventilazione meccanica, sopportata pazientemente per 10 settimane (paziente allettata che comunicava scrivendo su una lavagnetta). Alla 32 settimana, dopo profilassi corticosteroidea per RDS, un taglio cesareo elettivo ha permesso la nascita di un bambino sano di peso adeguato, che non ha sviluppato problematiche respiratorie.

Una paziente con sospetta agenesia renale fetale bilaterale è pervenuta al nostro centro per avere la conferma diagnostica di quel sospetto, con tecniche invasive e non invasive che erano di nostra competenza. L’amnioinfusione diagnostica e il test alla furosemide hanno confermato l’assenza bilaterale dei reni e quindi la condizione di incompatibilità con la vita. Alla repentina risposta della paziente sulla scelta dell’interruzione di gravidanza, le è stato proposto l’” accompagnamento” del feto terminale sulla base anche delle condizioni della legge 194 che propongono alternative all’interruzione. L’”accompagnamento” è indubbiamente un atto eroico: la vita del feto cresce visibilmente e in intensità relazionale, proporzionalmente al passare delle settimane gestazionali. Va da sé, quindi, la forte reazione della paziente alla nostra proposta. Un secondo aspetto, di ordine strettamente medico, era quello relativo alla tutela della salute psichica della paziente: numerosi studi ormai hanno validato il grosso impatto della perdita del figlio sulla vita relazionale familiare, di coppia ed individuale nei mesi successivi all’evento. La sindrome post-abortiva è un dato clinico ormai acclarato ed è dovere di ogni medico informare le pazienti che scelgono l’IVG circa l’entità e la gravità delle conseguenze. I due criteri adottati, quindi, l’uno giuridico, l’altro medico, erano fondati nell’ambito di una informazione corretta e scientificamente fondata. Il pregiudizio culturale, che esiste verso gli operatori cattolici nel mondo prenatale, ha fatto si che la paziente recepisse questo atteggiamento come un counselling direttivo sulla base delle convinzioni religiose. La paziente, rifiutando la proposta dell’”accompagnamento” del feto terminale, inveì invocando la libertà di coscienza e la decisione personale. Dieci anni dopo, Novembre 2002, si ripresenta al nostro centro cercando in particolare il medico che le aveva fatto la consulenza dieci anni prima. <>. La gravidanza è esitata in un parto spontaneo alla 38 settimana: dopo sei ore dalla nascita Alice è deceduta. Alla visita di controllo la paziente disse queste parole: <

Un altro aspetto importante e strettamente inerente al feto considerato terminale è l’atteggiamento di molti medici abortisti di non utilizzare tecniche di analgesia fetale sulla base di motivazioni che ritengono il feto incapace di una sensibilità dolorifica nelle epoche gestazionali in cui vengono effettuate le procedure abortive. Una seconda motivazione è data dal considerare inutile una pratica analgesica in un feto che comunque deve morire.

Il dolore fetale è attualmente oggetto di numerosi studi nell’ambito del mondo scientifico. Infatti la necessità di eseguire procedure invasive in utero e, d’altra parte, le conoscenze sempre maggiori nell’ambito della medicina fetale hanno portato i ricercatori a chiedersi: il feto sente dolore?

Quando si parla di dolore si rende implicito un riconoscimento verbale dello stesso, cosa che, però, non può essere applicato in medicina fetale; pertanto nel nostro ambito si parla di “indicatori” di dolore fetale.

In letteratura ne sono stati riportati diversi: anatomici, fisiologici/ormonali, comportamentali.

Esistono evidenze molto forti che dimostrano le basi neuro-fisiologiche del dolore del feto a partire dalla 8 a settimana di gravidanza.

Inoltre recenti dati di letteratura sulla anatomo-fisiologia del sistema di nocicezione fetale hanno messo in luce la possibile maggiore intensità di uno stimolo nocicettivo su un feto o su un neonato pretermine, che ha ancora un sistema nervoso immaturo, rispetto ad un neonato a termine. La soglia del dolore, infatti, risulta più bassa, probabilmente per l’immaturità degli interneuroni inibitori nel corno dorsale del midollo spinale e alla mancanza delle fibre inibitorie corticali (Bicknell HR and Beal JA 1984; Fitzgerald M and Anand KJ 1993).

Gli studi sia nell’animale sperimentale che nell’uomo dimostrano che le conseguenze del dolore non adeguatamente trattato su un sistema nervoso ancora in via di sviluppo possono alterare l’organizzazione sinaptica e neuronale ed essere dannose sia a breve che a lungo termine (Anand KJ 2000).

Per tale motivo è da noi in corso di sperimentazione un protocollo che prevede l’utilizzo di farmaci di riconosciuta innocuità per l’analgesia fetale nelle procedure invasive fetali che comportino l’attraversamento del corpo fetale.

Un ultimo aspetto dello sviluppo neuro-sensoriale del feto è dato dal “fetal suffering”: con questo termine si vuole distinguere il dolore fisico da un’esperienza di sofferenza psicologica. Come per gli adulti, infatti, il dolore fisico può essere ricordato solo quando è associato con un’esperienza di dolore. Infatti, nella vita prenatale sono state documentate diverse condizioni di “memoria del suffering” o di esperienze relazionali dolorose.

Numerosi studi hanno correlato eventi prenatali stressanti con basso peso alla nascita e ritardi neurologici di vario tipo (Lou et al 1994) o con la sindrome da iperattività nella prima infanzia (Zappitelli et al 2001).

Altri studi suggeriscono che lo stress materno specialmente tra il terzo e il quinto e l’ottavo e il nono mese di gravidanza possa aumentare il rischio di disordini psichiatrici nei bambini (Huttunen MO et al 1978). Alcune esemplificazioni riguardano infatti la “survivor Syndrome” come percezione da parte del bambino (valutazioni effettuate tra i sei ed i nove anni) di essere sfuggito alla morte in quelle situazioni in cui è stata effettuata una revisione per aborto volontario e che non ha portato, per diverse motivazioni, all’uccisione dell’embrione.

Un altro esempio è dato da quei feti che sopravvivono alla “riduzione embrionaria”, pratica ben conosciuta di “killing” di feti normali in caso di multigemellarità. In questi studi è stato evidenziato che in bambini nati dopo aborti volontari o spontanei e in pazienti che non avevano ancora elaborato il lutto precedente, si sviluppa la “replacement child syndrome”, dove il bambino riferisce di vivere una percezione psicologica di essere un sostituto.

Altro esempio è quello di cui facciamo spesso esperienza presso il nostro centro: le procedure fetali invasive soprattutto diagnostiche (amniocentesi e cordocentesi) inducono la madre ad interrompere il rapporto psichico col proprio feto in attesa della risposta del cariotipo (M. Cederholm 2001). Nella nostra opinione questo può costituire un notevole insulto per il feto in via di sviluppo e quindi riteniamo necessario un supporto psicologico per queste donne che si configura alla luce delle attuali conoscenze come un atto di prevenzione sociale.

Da tutto ciò si evince che molto si può fare per opporsi con criteri rigorosamente scientifici e fortemente umani alla cultura dell’eutanasia prenatale per ottenere un servizio alla famiglia ed alla società e restituire alla dignità umana il proprio valore.

 

Bibliografia

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4) De Santis M, Scavo M, Noia G, Masini L, Piersigilli F, Romagnoli C, Caruso A. Transabdominal amnioinfusion treatment of severe oligohydramnios in preterm premature rupture of membranes at less than 26 gestational weeks. Obstet Gynecol Surv. 2004 May;59(5):321-2.
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12) Noia G. “L’eutanasia prenatale: il feto terminale”. Convegno del Movimento per la Vita : “Dall’aborto all’eutanasia” Torino, 25-26 ottobre 2003

13) Noia G, Caruso A, Mancuso S. Le tecniche multiple invasive di diagnosi e terapie fetali e al storia naturale delle malformazioni. Le terapie fetali invasive. Società Editrice Universo 1998; 4:154-173
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16) Noia G, Pierelli L, Bonanno G, Monego G, Perillo A, Rutella S, Cavaliere AF, De Santis M, Ligato MS, Fotunato G, Scambia G, Terzano M, Iannace E, Zelano G, Michetti F, Leone G, Mancuso S. A novel route of transplantation of human cord blood stem cells in preimmune fetal sheep: the intracelomic cavity. Stem Cells. 2003;21(6):638-46.
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18) Pope John Paul II. Evangelium Vitae 1995; Apr 6, 24(42):689-730
19) Zappitelli M, Pinto T, Grizenko N. Pre-, Peri-, and postnatal trauma in subjects with attention-deficit Hyperactivity disorder. Can J Psych 2001;46(6):542-48

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