- trapianto prenatale di cellule staminali ecoguidato: 167 trapianti in cavità celomatica nella pecora ovis aries comisana.
Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche in utero può essere considerato un approccio terapeutico potenziale per una grande varietà di disordini ematologici congeniti, diagnosticabili in fase prenatale precoce. Con l’espandersi e con il progressivo miglioramento delle tecnologie biofisiche biochimiche biomolecolari, molte anomalie, per il fatto di poter essere diagnosticate precocemente, permettono alle coppie di non pensare tout court all’interruzione volontaria di gravidanza, bensì a possibili terapie effettuate prenatalmente per via invasiva. Si sta sviluppando una tendenza comportamentale che sostituisce l’aforisma search and destroy (conosci e distruggi) con la frase search and cure (conosci e cura) (Holzgreve). Le strategie che possono essere attuate nell’ottica di un’applicazione clinica del trapianto prenatale con cellule staminali ematopoietiche sono essenzialmente tre.
La prima (e la più ovvia) consiste nel trapianto di cellule staminali con il fine di ricostituire la normalità di quei disordini ematopoietici che attualmente vengono curati dopo la nascita con trapianto di midollo osseo. La seconda strategia, probabilmente la più importante, si basa sull’utilizzo del trapianto prenatale per indurre una tolleranza prima della nascita, attraverso la creazione di un chimerismo ematopoietico misto. Questa condizione di tolleranza, ottenuta prenatalmente, dovrebbe essere usata poi come base per trapianti di cellule o di organi dopo la nascita. Infine, una terza strategia potrebbe essere quella di usare il trapianto prenatale per facilitare una terapia genica che usi le cellule staminali come target. Per ciascuna di queste strategie un’applicazione clinica dovrebbe prima dimostrare che ogni approccio:
– venga fatto con un rischio accettabilmente basso per la madre e per il feto;
– sia così efficace per la malattia quanto lo è quello postnatale;
– comporti vantaggi evidenti nei confronti della terapia postnatale.
E allora, viene subito da domandarsi: quali sono i vantaggi potenziali del trattamento prenatale su quello postnatale? (Flake, 1999). Innanzitutto, si deve considerare che il microambiente gestazionale nelle fasi precoci della gravidanza e indubbiamente particolare sotto molti aspetti e può teoricamente facilitare la terapia cellulare. In questo compartimento, e presente un’attività fortemente proliferativa e l’espansione del compartimento ematopoietico avviene in maniera esponenziale. In secondo luogo, e l’unica fase della vita in cui si assiste ad una migrazione in grande scala delle cellule staminali mentre vanno a colonizzare i compartimenti ematopoietici. Infine, come terzo aspetto, bisogna ricordare che il feto e estremamente piccolo e che prima della 13asettimana ha un peso < 75 g. Questa condizione ponderale permette trapianti di quantità di cellule molto più grandi di quelli che si possono iniettare dopo la nascita. Il vantaggio più importante, comunque, sembrerebbe essere il fenomeno della tolleranza immunitaria fetale. Infatti, il sistema immune fetale, nella fase precoce di gravidanza, va incontro ad un processo di riconoscimento del self; ciò si verifica primariamente nel timo e consiste di due componenti: selezione positiva di prelinfociti, che riconoscono il complesso MHC (complesso maggiore di istocompatibilità) self, e la selezione negativa dei prelinfociti, che riconoscono ad alta affinità gli antigeni self in associazione a MHC. Sopravvivono solo, quindi, i linfociti che sono in grado di riconoscere antigeni estranei associati a MHC e, dall’introduzione di cellule estranee capaci di presentare antigeni specifici nel timo prima che si verifichi questo processo, si potrebbe ottenere tolleranza immune specifica per quegli stessi antigeni iniettati (Goodnow).
Queste premesse immunologiche hanno poi definito principi basilari nell’attuazione dei trapianti prenatali:
- nel feto di epoche gestazionali molto precoci esiste uno spazio midollare disponibile all’attecchimento di cellule ematopoietiche di donatore senza la necessita di mieloablazione (le cosiddette nicchie), per cui il trattamento precoce della malattia diviene cruciale per l’efficacia dello stesso;
- la competizione cellulare da parte dell’ematopoiesi fisiologica dell’ospite non rappresenta di per sè un ostacolo insormontabile all’attecchimento di cellule del donatore;
- il sistema fetale immune non rappresenta una barriera all’attecchimento di cellule allogeniche o xenogeniche, poiché, non essendo del tutto maturo, può non rigettare tessuti estranei.
L’esperienza sperimentale nell’ istituto degli autori, da 1998 ad oggi, e stata condotta effettuando 157 trapianti prenatali e postnatali, così suddivisi: 31 trapianti intraperitoneali; 3 trapianti intraperitoneali, seguiti da boost postnatale; 2 trapianti con doppio inoculo intracelomatico e intraperitoneale; trapianto con triplo inoculo intracelomatico, intraperitoneale e con boost postnatale; 116 trapianti intracelomatici singoli; 4 trapianti intracelomatici con boost postnatale. In particolare, in questo elaborato, l’attenzione viene posta soprattutto sui trapianti in cavità celomatica.
L’originalità di questo approccio consiste nel fatto che, diversamente dagli inoculi in cavità peritoneale e nel cordone ombelicale, la cavità celomatica rappresenta un sito anatomico posto al di fuori del corpo del ricevente (embrione).
Tale metodologia e stata scelta con lo scopo di ottenere il vantaggio importante dell’anticipazione dell’epoca di inoculo, poichè l’approccio a siti anatomici intraembrionali, per la loro precocità, avevano alto tasso di perdita dell’embrione stesso. Poiché l’obbiettivo è quello di rendere tollerante il ricevente alle cellule iniettate, l’utilizzo di una cavita anatomica come quella celomatica, che permette un inoculo precoce e agevole sotto guida ecografica, e sembrato il più idoneo all’attecchimento, permettendo, almeno su basi teoriche, una più facile induzione della tolleranza immunitaria. Infatti, le cellule staminali iniettate in cavita celomatica sono facilitate nella colonizzazione delle nicchie midollari data l’immaturità timica (scarsità della popolazione di linfociti T), con diminuzione delle barriere all’engraftment. Il trapianto in cavità celomatica, fattibile nell’ovino tra 35-46 giorni di epoca gestazionale e proiettivamente nel feto umano tra 11 e 12 settimane, poteva rispondere allo scopo, dato che gli inoculi più precoci nell’uomo sono stati a 15 settimane. In questo elaborato si riporta una sintesi di dati relativi al follow-up a lungo e breve termine di 39 trapianti prenatali intracelomatici nel feto ovino con cellule cordonali e di midollo osseo fetale. Le cellule staminali umane da sangue di cordone ombelicale sono state raccolte al parto di pazienti sane a termine, dopo consenso informato, mentre le cellule di midollo osseo fetale (da aborti spontanei) sono state donate da professor Michejda dell’International Center for Interdisciplinary Studies of Immunology di Washington. Le cellule sono state iniettate in feti di pecora di razza comisana a 35-46 giorni di epoca gestazionale, stimata in base a curve di crescita precedentemente elaborate dagli autori (Noia, 2002). Le valutazioni dell’engraftment in campioni bioptici di tessuti ovini (figure 1 e 2) sono state condotte mediante citofluorimetria, analisi biomolecolare (PCR mediante primers specifici umani) e immunoistochimica (Noia, 2002, 2003, 2004). La percentuale di abortività e stata inizialmente alta (56 per cento) nelle casistiche degli autori, ma non e ancora chiaro se ciò dipenda dalla metodica invasiva o da altri fattori (abortività specifica della specie – 25% -, età dell’animale trapiantato). Piu recentemente, l’uso di spugnette al progesterone e la scelta di animali di età non >18 mesi hanno ridotto notevolmente il tasso di abortività ( 8% ).
Figura 1 Figura 2
RISULTATI
Nelle figure 3-8 sono riportati i risultati dei tre gruppi considerati, relativi all’evidenza di engraftment nelle fasi prenatale, postnatale e fino a 18 mesi dalla nascita. Sono sintetizzate le fonti di cellule utilizzate, le quantità, gli esiti ostetrici e la positività evidenziati con le suddette metodiche (citofluorimetria, biologiamolecolare e immunoistochimica).
In sintesi, si può affermare che in questo modello:
- il trapianto prenatale puo utilizzare la cavita celomatica, accanto alle classiche vie precedentemente usate, come la intraperitoneale e la intravascolare;
- il passaggio in organi ematopoietici e non è stato dimostrato in fase sia prenatale sia postnatale precoce e a lungo termine.
Risultati il tasso di engraftment era
dalla nascita |
CONCLUSIONI
Il modello di xenotrapianto di cellule staminali umane nella cavita celomatica dell’ovino mostra, rispetto ad altri modelli animali, una sua peculiarità: e un modello che, per la lunghezza della gravidanza della specie, comporta tempi lunghi di confronto statistico, metodologico e di follow-up. Nel caso specifico del trapianto prenatale, il follow- up a lungo termine e particolarmente rilevante in ordine a:
- valutazione della persistenza del trapianto effettuato e quindi dimostrazione dell’effettiva tolleranza delle cellule trapiantate;
- valutazione dello stato di crescita e di salute dei feti trapiantati;
- valutazione di eventuali complicanze gestazionali e/o post-gestazionali nelle madri sottoposte ai trapianti prenatali.
Ciò nonostante, il modello diventa particolarmente utile perché presenta nel corso dell’ontogenesi un sito anatomico di inoculo (cavità celomatica), che e ben valutabile attraverso l’uso di ultrasuoni ed e ben approcciabile con la metodica invasiva ecoguidata mediante ago da 20 G e 15 cm. L’apparente facile esecuzione (sembra una metodica molto simile all’amniocentesi) non lo rende, però, estremamente riproducibile, poiché, soprattutto per la razza comisana gravata da alta prevalenza di gemellarità e abortività spontanea. L’esecuzione di un trapianto in celomatica deve presupporre una particolare e lunga esperienza di metodiche diagnostiche e terapeutiche invasive ecoguidate. Vi sono inoltre difficoltà concettuali proprio inerenti la scelta di questo sito. La cavità celomatica e anatomicamente definita come extraembrionaria: già l’ottenimento di un passaggio di staminali da questo sito all’interno di organi ematopoietici e non ematopoietici fetali e già di per se un dato fortemente originalee apportatore di nuove conferme sulla capacità di walking e homing delle cellule staminali del cordone o di midollo osseo fetale derivate da aborti spontanei.
In secondo luogo, la cavita celomatica ha un pabulum biochimico molto complesso, fortemente concentrato in proteine, estremamente denso e con altre variabili biologiche fortemente ostacolanti il passaggio di cellule o il loro trasferimento verso gli organi interni embrionali. Infine, lo xenotrapianto in se offre sul piano immunologico una diversità antigenica che, per definizione, si offre come ostacolo alla tolleranza. Nonostante questi tre aspetti di background concettuale negativo, nonostante la difficoltà di una tecnica che essendo ecoguidata deve presupporre ottima esperienza di metodologie invasive, nonostante l’alto tasso di abortività relativo sia alla specie sia alla tecnica stessa, il modello di xenotrapianto ha fornito importanti conoscenze sui fondamenti che regolano la tolleranza immunitaria e, quindi, le future applicazioni nella cura di malattie genetiche.
I dati conclusivi sostanziali sono:
- passaggio ed evidenza del DNA umano negli animali trapiantati;
- diffusione delle staminali umane in molti organi ematopoietici e non;
- chimerismo persistente fino a 18 mesi (Noia, 2005, 2007).
Il modello qui presentato rappresenta un inizio promettente per la terapia delle malattie genetiche, ma la strada è ancora molto lunga.
- Modelli finalizzati alla chirurgia fetale aperta
Negli ultimi 30 anni alcuni Ricercatori hanno elaborato interventi, più o meno indaginosi, di correzione prenatale di alcune delle principali malformazioni congenite, applicandoli al feto animale, appartenente alle varie specie della scala zoologica.
I modelli, scientificamente più credibili, si sono rivelati quelli relativi alle seguenti patologie: drenaggio di versamenti liberi o saccati delle maggiori cavità sierose; terapia derivativa dell’idrocefalo congenito ostruttivo; asportazione di malformazione adenomatoide cistica del polmone (MACP); diversione urinaria di uropatie ostruttive severe delle basse vie urinarie (con rischio di danno renale bilaterale e di ipoplasia polmonare, incompatibile con la sopravvivenza post-natale); ernia congenita del diaframma e conseguente ipoplasia polmonare; aritmie cardiache; ipotiroidismo; isoimmunizzazione Rh (incompatibiltà materno-fetale); disrafismi spinali; infezioni fetali perinatali; alterazioni del volume del liquido amniotico.
Alcuni di questi modelli, in conseguenza dei risultati terapeutici ottenuti, hanno permesso di ipotizzare forme di diagnosi e terapie invasive, mediche e chirurgiche, da attuare, poi, sull’uomo.
Naturalmente, il passaggio dalla sperimentazione animale all’applicazione clinica nell’uomo è stato ed è ancora ricco di controversie, sia sul piano puramente medico-scientifico, sia su quello bioetico e socio-sanitario.
Agli inizi degli anni ottanta, il primo tentativo di correzione chirurgica a “cielo aperto” di una malformazione congenita, altrimenti incompatibile con la vita extrauterina, è stato effettuato dalla “equipe” di chirurgia fetale guidata dal Prof. M. R. Harrison dell’Università di California, S. Francisco.
A tutt’oggi circa 40 feti sono stati operati nel mondo, nella fase prenatale della vita, con chirurgia fetale aperta..
La mortalità legata a questi interventi è stata, come prevedibile, molto elevata (50-60% dei casi).
Ma questo dato, apparentemente negativo, deve essere valutato in maniera più analitica. Infatti i casi selezionati per la terapia chirurgica in utero, sono sempre definiti “disperati”, sulla base dell’esperienza clinica.
Essi appartengono alla cosiddetta mortalità nascosta (“Hidden Mortality” degli autori anglosassoni), perché non arrivano all’attenzione del neonatologo o del chirurgo neonatale e quindi non entrano a far parte delle statistiche sulla mortalità post-natale.
I progressi e le prospettive future delle terapie fetali (chirurgia laparoscopica, terapia delle malattie metaboliche, endocrine e del ritardo di crescita intrauterina), associati all’enorme esperienza acquisita nel campo della ricerca sperimentale, giustificano lo sviluppo di gruppi multidisciplinari per il miglioramento della conoscenza e delle capacità operative nell’ambito della chirurgia fetale aperta.
L’importanza di un approccio multidisciplinare alle problematiche sopra indicate non risulta così privo di applicabilità futura.
In tale ambito il Prof. Noia, come vicepresidente del GIRTEF (Gruppo Interdisciplinare di Ricerca e Terapia Fetale), in collaborazione con i colleghi chirurghi-pediatri del Bambin Gesù di Roma, ha effettuato una ricerca sperimentale, nella pecora, finalizzata a 3 aspetti fondamentali:
- studio della fisiopatologia dell’animale sperimentale sia con metodiche invasive che non invasive (studio dell’embrione e degli annessi fetali in epoca precoce, < 50 gg.);
- creazione di curve di crescita del feto ovino per validare la biometria fetale, l’età gestazionale e la sua riproducibilità clinica e sperimentale;
- creazione di modelli sperimentali di malformazioni fetali e loro riparazione in utero su feti di pecora “esteriorizzati” (open surgery):
- creazione nell’animale sperimentale di un modello di occlusione intestinale e successiva ricanalizzazione in open surgery;
- Creazione nell’animale sperimentale di un modello di uropatia ostruttiva bassa per validare l’ipotesi del danno renale e del detrusore vescicale;
- Creazione nell’animale sperimentale di un modello di gastroschisi fetale e sua riparazione.